A questo tema sono particolarmente affezionato perché mi rimanda al concorso a cattedra per l’insegnamento dell’educazione fisica e sportiva ( all’epoca si chiamava così) del lontano 1982 ( conclusosi molto positivamente), molto prima della metodologia operativa.
Sviluppai la seguente traccia: processi e tappe fondamentali dell’apprendimento motorio e collegamenti della motricità con le aree cognitiva, emotivo-affettiva e socio-relazionale della personalità, dove in maniera embrionale stava entrando la complessità nelle scienze motorie.
Il prestigioso risultato conseguito mi ha dato la possibilità e il privilegio di frequentare le più brillanti intelligenze del mondo dell’educazione fisica e sportiva, anche del panorama internazionale, e ciò mi ha giovato enormemente.
Infatti, ciò indusse il ministero a inserirmi nell’équipe nazionale di formatori a cui fu affidato il compito di rinnovare l’ insegnamento della disciplina.
A me fu assegnato il compito di occuparmi della innovazione dal punto di vista metodologico e didattico della formazione dei grandi giochi sportivi collettivi e di invasione.
Un compito prestigioso e impegnativo, che ho conservato per una decina di anni facendo seminari su tutto il territorio nazionale.
Poi dovetti rinunciare in quanto crebbe sensibilmente il mio impegno agonistico al punto tale da non poter più conciliare tutto quanto.
Ricordo che in quel periodo le neuroscienze non avevano ancora fatto irruzione in campo sportivo e men che meno in ambito educativo, a differenza di oggi che sono diventate pervasive in tutte le attività umane dove si esercitano formazione e apprendimento.
Faccio presente che all’ epoca imperava il metodo analitico ( quello autentico) e cominciava ad affacciarsi timidamente quello globale.
Nulla a che vedere comunque con ciò che avevo in animo di proporre.
Per quanto riguarda la lezione, lo schema era questo: riscaldamento
generale, riscaldamento specifico, parte centrale ( elemento tecnico, piuttosto che
potenziamento fisiologico, oppure capacità coordinative, ) infine la lezione si concludeva quasi sempre con un gioco.
Se ci riflettete, simmetrico a ciò che avveniva sui campi di calcio, e che purtroppo facciamo fatica ancora a liberarcene del tutto: attività frazionate, la tecnica
separata dal tutto, il gioco come premio (la partitina finale).
E da lì ha avuto inizio la mia storia professionale: educare nel, con e attraverso il gioco (ripeto, mi dovevo occupare del rinnovamento metodologico dell’insegnamento della educazione sportiva), e di tutto ciò che ne conseguiva (approccio comunicativo, itinerari didattici personalizzati, lo studente/persona al centro, attenzione al clima emotivo-affettivo, valorizzazione del contesto…).
Parto dalle conclusioni ( n ossequio alla progettazione a ritroso della didattica per
competenze) e poi articolo il ragionamento.
Comincio con Ken Robinson (2011): “Le vere sfide che l’istruzione deve affrontare potranno essere risolte solo dando potere agli insegnanti creativi ed entusiasti e stimolando l’immaginazione e la motivazione degli studenti”.
E proseguo: ispira, incoraggia l’autonomia proponi sfide adeguate, incoraggia la creatività.
Accetta l’errore, ha la vocazione e, soprattutto, guarda con affetto i suoi studenti.
Perrenaud:
Dieci Nuove Competenze per Insegnare.
E completo: anni fa sottoponemmo i nostri studenti a questo compito (badate bene, non questionario, ma produzione aperta), dal titolo:
"Cosa vi aspettate dai vostri docenti in questo nuovo percorso di studio?"
Vennero fuori queste richieste: innanzitutto competente.
Ma che le competenze professionali dell’insegnante non si limitassero a questioni
puramente accademiche (conosce la sua materia ), sebbene importanti, dovevano essere integrate da altre legate agli aspetti socio-emotivi.
Tra cui spiccava la necessità di mantenere un rapporto empatico (si preoccupa dello studente), di comprendere i problemi dell’adolescente di oggi sia a livello personale che accademico (è comprensivo), o altri legati al proprio carattere (dimostra entusiasmo o è amichevole).
In sintesi, emerse con molta chiarezza che essere insegnanti vuol dire occuparsi di persone, non solo di contenuti scolastici.
Occuparsi di tutti, senza lasciare mai indietro nessuno, nemmeno uno solo!
Per me niente di nuovo se non una conferma.
Infatti , insegnare per me, non si è mai esaurito nel fornire solide basi culturali, ma ha significato soprattutto risvegliare l’interesse nei ragazzi, far divampare quell’incendio di curiosità, entusiasmo e voglia di conoscere che, una volta acceso, li accompagnerà per tutta la loro vita.
Credo fortemente che il ruolo dell’insegnante debba essere quello di sostegno
all’apprendimento, e che il suo scopo sia quello di creare un ambiente sereno e ricco di stimoli.
Essere insegnanti oggi in un mondo di apparenze infine, significa valorizzare l’imperfezione, senza nascondere le proprie imperfezioni.
VOLO UT SIS
Formare è processo del soggetto; è un formarsi, un prendere forma personale e secondo la propria natura, individualità, etc; o - almeno questo è il traguardo più alto di ogni processo formativo, che guarda al soggetto come attore e vede l’«acquisir forma» che gli è proprio come un processo autonomo, non prevedibile, anche aperto.
Per far sì che una determinata esperienza sia realmente formativa ed influisca positivamente sulla strutturazione di precisi abiti occorre vi siano almeno tre condizioni, quali direzionalità, sistematicità, selettività.
Per direzionalità s’intende la necessità che l’esperienza non sia casuale ma diretta ad uno scopo.
L’esperienza deve essere selezionata in funzione del suo obiettivo e poi gestita
affinché si espleti nella direzione giusta.
Sistematicità: nei soggetti è fondamentale che determinate esperienze, ritenute formative, si ripetano in modo sistematico e nel corso di un periodo di tempo piuttosto ampio.
Richiamando il pensiero di Bateson, Baldacci parla, in questo caso, di apprendimento di secondo livello o deutero-apprendimento.
Selettività, che non significa cristallizzazione ma aprirsi al dialogo e alle differenze con le varie realtà: a fronte di una molteplicità di esperienze cui gli individui possono andare incontro è importante, al fine di consolidare un certo abito ed un determinato atteggiamento.
Limitando il più possibile esperienze che possano interferire negativamente, perché non conformi allo sviluppo di ciò che si vuol stimolare e coltivare.
Marina Santi, a cui fa riferimento anche Francesco Quaranta in un suo articolo afferma: “nel corso degli ultimi anni la riflessione pedagogica ha posto in evidenza l’importanza della metacognizione, intesa come la conoscenza dei propri processi cognitivi ed i risvolti che da essi ne derivano.
Il fine è quello di acquisire sempre maggior consapevolezza delle proprie capacità e potenzialità in ambito cognitivo, insieme alle componenti di natura
emotiva”.
Riassunto (alla Lucangeli) “Ancorare le attività di apprendimento ad un problema più ampio, il supportare lo studente in maniera tale che svolga il proprio compito serenamente, il progettare un compito autentico, il progettare un ambiente d’apprendimento che rifletta la complessità del contesto all’interno del quale ci si potrà trovare nel futuro.
Aiutare l’allievo nella comprensione del processo affinché possa giungere ad una soluzione del problema, sollecitare il pensiero dell’allievo attraverso la creazione di un buon clima d’apprendimento, incoraggiare alla verifica delle idee rispetto a punti di vista differenti, stimolare la riflessione sui contenuti appresi e sul processo di apprendimento”.
Ciò è sicuramente in linea con l’idea affermata più volte da Edgar Morin in merito alla necessità di prediligere un pensiero transdisciplinare anziché parcellare.
Morin, infatti, sostiene che l’attuale tendenza all’iperspecializzazione impedisce di vedere le connessioni esistenti tra i diversi saperi e di comprendere il globale.
Diventa di fondamentale importanza recuperare la capacità di organizzare le conoscenze, connettendole le une alle altre in senso globale.
E se riconduciamo il tutto al calcio, a cosa ci vien da pensare?
In quale luogo vengono mobilitate tali competenze?
E in che modo devono essere sollecitate?
Sicuramente al gioco in tutte le sue declinazioni (a questo proposito vi consiglio il libro di Fabio Lepri, dal titolo, il gioco in profondità) e all’approccio antiautoritario, non direttivo, dialogico, che filosoficamente viene definito “AGORATICO”
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